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Obiettivo "Democrazia governante": alcune considerazioni dopo uno scambio di vedute a cena

di Paolo Razzuoli

I recenti articoli pubblicati da questo sito sul tema della crisi della democrazia e della necessità di trovare un'alternativa al bipopulismo, hanno suscitato interesse e stimolato polemiche. Non può ovviamente che farmi piacere, visto che suscitare dibattito e riflessione è l'unico scopo di questa iniziativa.

Ebbene, qualche sera fa, nel corso di una ottima cena, ho avuto un interessante scambio di vedute con un amico fornito di una non comune esperienza politica, sul tema della Legge Elettorale e della stabilità dei governi.
Discussione che ha preso le mosse dai miei recenti articoli, primo fra questi "Obiettivo Democrazia governante: qualità della politica e riforme istituzionali".

Il mio interlocutore partiva dal presupposto che la ricerca della stabilità dei governi è l'obiettivo primario da perseguire attraverso le necessarie riforme istituzionali. Obiettivo sicuramente importante, sia in ragione della cronica instabilità dei nostri governi (e non solo quelli della stagione repubblicana), sia in ragione della complessità del tempo che viviamo, che richiede politiche di ampio respiro che solo governi stabili possono aspirare a mettere in campo.

Ma da solo il concetto di stabilità non basta: occorre capire a quali obiettivi politici tale presupposto è finalizzato. In primo luogo la stabilità occorre coniugarla con l'aggettivo "democratica": i governi più stabili sono quelli dittatoriali e/o le autocrazie: naturalmente il mio interlocutore non auspicava affatto tali sbocchi.
Poi, fattore non certo secondario, la stabilità va altresì coniugata con la sussistenza di un progetto politico chiaro di cui la stabilità è il mezzo e non il fine.
Ecco perché utilizzo il termine "Democrazia Governante": condizione di cui la stabilità rappresenta un fattore sicuramente indispensabile, anche se non sufficiente.
Comunque, anche in risposta a certe posizioni anche presenti nel mondo accademico, che hanno urlato all'allarme democratico ogni qualvolta si è cercato di intervenire per la ricerca di una maggiore stabilità dei governi, rispondo con Piero Calamandrei che nel 1946 ebbe a dire: «Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici».

Quindi la più convinta adesione alla ricerca della stabilità dei governi, ma unitamente alla consapevolezza della necessità di affiancarla a progetti politici chiari, non demagogici, pertanto non inquinati dalle tossine ammorbanti del populismo che oggi si propone come il più insidioso pericolo per la tenuta delle istituzioni di democrazia rappresentativa.

Dalle nostre democrazie occidentali, stanno venendo preoccupanti segnali di crisi, che riguardano anche democrazie consolidate quali quella statunitense o inglese. Sino a qualche anno fa si parlava di esportare le istituzioni di democrazia liberale; ora mi pare che il nostro problema sia quello di riuscire a conservarle, non solo da attacchi esterni ma, a mio avviso ancor peggio, dal tarlo delle insidie interne.
Il tema della crisi della democrazia e dei fattori che la determinano assume, a mio modo di vedere, priorità su qualsiasi altro. Una condizione, a mio avviso, molto diversa da quella - adesempio - degli anni '90.
La lettura del contesto risulta quindi fondamentale: lo dico prendendo a prestito John Stuart Mill "le regole non sono né dovrebbero essere di obbligo eterno, ma variano e devono variare più o meno da un'epoca all'altra, man mano che le coscienze delle nazioni diventano più illuminate e cambiano le esigenze della società politica».
Ecco perché negli anni '90 ho sostenuto il sistema maggioritario mentre ora sono paladino del proporzionale.

Il tema della crisi della democrazia è ovviamente molto complesso e non può essere ricompreso nello spazio di queste riflessioni:
Per decenni, il connubio tra democrazia liberale e capitalismo ha garantito benessere e prosperità. Oggi, l'assetto politico ed economico dell'Occidente è minato da diseguaglianze, populismi e politiche identitarie. Invecchiamento e denatalità, una bassa crescita economica e flussi finanziari e migratori mal ponderati alimentano il disagio sociale. Contesti geopolitici, tecnologici ed energetici in rivoluzione fanno il resto, erodendo le democrazie dall'interno.
E sempre dall'interno le democrazie vengono minate dalla disaffezione al voto, dalla perdita di rappresentatività degli organi della rappresentanza popolare a partire dal Parlamento, dalla crisi dei partiti, dalla perdita di credibilità della politica che sempre più viene percepita (con molte ragioni) come occasione di busines, dalla sconnessione fra rappresentati e rappresentanti, da una classe politica solo protesa alla ricerca del consenso immediato quindi incapace di far sognare un futuro, insomma da quei sintomi che danno ragione ad Emilio Gentile che afferma che "la democrazia rappresentativa si sta trasformando in democrazia recitativa", quindi in una democrazia finta.
«Si può eliminare facilmente una vera dittatura, ma è difficilissimo eliminare una fìnta democrazia» - Efisio Melis (1919).

Poi l'influenza dei social ed in genere del circo mediatico, campagne elettorali inquinate da roboanti ed improbabili promesse, l'appiattimento sempre crescente sul presente a scapito della progettazione di un futuro, il disprezzo del merito e della competenza in una fase di estrema difficoltà come l'attuale. Insomma una delicatissima sovrapposizione di fattori favorevoli per premiare la vacuità dei demagoghi anziché la serietà di coloro che si sforzano di dare risposte alle inquietudini del presente con la necessità di pensare alle prossime generazioni.

Contesti ben fotografati nei risultati delle elezioni tenutesi ultimamente in vari paesi europei e non solo, che hanno visto l'affermazione di movimenti populisti, ancorché ammantati da vari colori, a volte rossi, a volte bruni, o altrimenti variopinti.
Un imbarbarimento e radicalizzazione dello scontro politico, che oggi costituisce il campanello d'allarme più eloquente del cattivo stato di salute delle istituzioni della democrazia rappresentativa un po' ovunque nel mondo occidentale, che l'ha creata e sviluppata.

Dando per buono il fattore della radicalizzazione dello scontro politico, ne consegue che il sistema maggioritario non potrà che premiare le posizioni più radicali. I sistemi maggioritari funzionano infatti quando le forze centripede rappresentano un fondamentale fattore di equilibrio: fattore che viene meno allorché a prevalere sono invece le componenti estreme.
Il tema vero mi pare che sia quindi quello di mettere ai margini le forze populiste, quale che sia il loro colore, in favore di alleanze democratiche e di alternativa ai populismi, che solo un sistema elettorale di impianto proporzionale (ovviamente con i necessari correttivi per evitare eccessive frammentazioni), può favorire.
Ovviamente purché si sappia ridare dignità alle istituzioni democratiche a partire dal Parlamento, il quale dovrà ritrovare la capacità di dare senso e dignità alle necessarie mediazioni che, se condotte seriamente, sono cosa ben diversa dagli inciuci e dalle conventicole.

Il focus torna quindi sul tema della qualità della politica, da cui nessuna seria azione di rilancio della vita democratica può prescindere. Affrontare seriamente un tema significa anzitutto comprenderlo e definirne gli ambiti. L'antidoto alla cattiva qualità della politica può essere soltanto la buona qualità della politica. Le riforme istituzionali servono, ma guai ad affidarsi ad esse con un approccio "palingenetico": le riforme istituzionali possono certo servire, ma solo in presenza dei necessari presupposti politico-culturali.

Il discorso ci riporta ad un interrogativo ineludibile: può una democrazia rappresentativa funzionare in assenza di partiti organizzati? Quale peso ha, nella attuale crisi democratica, il dissolvimento dei partiti così come concepiti nel periodo migliore del funzionamento delle istituzioni di democrazia rappresentativa?
Ed ancora: come possiamo coniugare la democrazia quale strumento di governo della complessità contemporanea con la necessità di accrescere il livello di consapevolezza del corpo elettorale?

ed ora alcune considerazioni sul versante delle riforme istituzionali.
Anzitutto un paradosso. Mentre a livello di narrazione pubblica sembrerebbe condivisa l'idea del rafforzamento dei poteri del governo centrale, gli esiti dei vari referendum confermativi di riforme costituzionali sono andati nella direzione opposta. E' questo il caso del referendum del 2001 sulla riforma del Titolo quinto, varata dal centro-sinistra; è il caso del referendum sul taglio dei parlamentari del 2020, frutto della temperie antipolitica.
Anche l'attuale maggioranza sembra voler proporre una propria riforma di impianto presidenzialista: strada su cui già ho avuto modo di esprimere le mie perplessità, non foss'altro per i segnali preoccupanti provenienti da paesi con alle spalle solidissime tradizioni presidenzialistiche.

Indipendentemente dal merito, sarà ben difficile che l'eventuale riforma possa superare lo scoglio del referendum confermativo, inevitabile visti i numeri parlamentari.
Quindi la proposta sembra più uno spot elettorale che una concreta scelta di modernizzazione del nostro assetto istituzionale, di cui si avverte peraltro la necessità.

La strada giusta, a mio modo di vedere, era quella della riforma del Governo Renzi, incagliatasi nelle secche del referendum confermativo del 2016. Per quella riforma mi sono a suo tempo speso senza risparmio; sono ancora convinto che la bocciatura sia stata una iattura per il Paese.
In quel progetto di riforma i temi importanti c'erano tutti, ovviamente con soluzioni possibili nella situazione data: Titolo V, superamento del bicameralismo paritario, rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio ed altro ancora. C'era anche il combinato con una buona legge elettorale, dico buona e, guarda caso, mai usata.
Penso che questi temi ancora costituiscano gli ancoraggi da cui partire, ove si voglia seriamente proporre un progetto riformatore e non uno slogan elettorale. Ma non è necessario partire dalla Costituzione; alcune strade utili, a partire da una nuova Legge Elettorale che consenta ai cittadini di riappropriarsi del potere di scelta dei loro rappresentanti, sono possibili con procedura ordinaria, quindi percorribile purché una maggioranza parlamentare lo voglia. Poi altri aggiustamenti regolamentari possibili e, fattore fondamentale, prendere coscienza che vanno superate quelle condotte politiche che più hanno contribuito a diffondere i germi dell'antipolitica.

Ma gli interrogativi - sicuramente i più inquietanti - sono quelli attorno alla crisi ed al futuro della democrazia.
Le cause della crisi sono molteplici e complesse. Occorre farne oggetto di un dibattito molto serio: promesse non mantenute? Degenerazioni dovute al rapporto fra ricerca del consenso e nuovi media? Crisi dei partiti quali strumenti di formazione, di selezione della classe dirigente e di intermediazione fra società e strutture di governo? Perdita di credibilità della politica e diffusione dell'antipolitica? Presenza di elementi affaristici nella condotta politica di molti? Degenerazione "inevitabile" o frutto dell'inerzia nella lettura dei segnali dei tempi? Incapacità di governare le nuove sfide a cui la politica è chiamata?

Interrogativi complessi, a cui ovviamente non so dare risposta, ma che costituiscono il più fertile terreno di confronto per la lettura della contemporaneità.
Ma un interrogativo si erge su tutti gli altri. Quale futuro per la democrazia?

e "Quale futuro per la democrazia" è il titolo di un saggio di Alessandro Magnoli Bocchi recentemente pubblicato da Il Sole 24 Ore.
E' un saggio che si legge bene; termino queste mie considerazioni con il consiglio di leggerlo.

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Lucca, 17 ottobre 2023

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