Di Dino Cofrancesco
Rilettura di Mario Vinciguerra, liberale dimenticato.
“I fascisti si dividono in due categorie, i fascisti fascisti e i fascisti antifascisti”. Che la battuta sia di Mino Maccari o di Ennio Flaiano, importa poco. Coglie una verità che, nel tempo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, è più attuale che mai. Eppure nella storia politica e culturale del nostro paese, di antifascisti antifascisti se ne trovano, anche se non riconosciuti dall’Anpi
Un fulgido esempio—l’aggettivo non è retorico—è Mario Vinciguerra (1887-1972), un liberale a tutto campo, vicino a Benedetto Croce e a Giovanni Amendola, che esordì nel mondo del giornalismo e della cultura collaborando con Piero Gobetti, editore del suo primo libro Il fascismo visto da un solitario (1923) in anni di fascismo triumphans in cui la libertà di pensiero poteva costare la vita. A Vinciguerra costò sette anni di carcere, che sarebbero stati più del doppio se non fossero intervenute varie amnistie. A rileggere la vasta produzione dello scrittore napoletano si resta ammirati dalla varietà delle sue ricerche—quelle letterarie, sul preraffaellismo inglese gli valsero il titolo di baronetto da parte della Regina Elisabetta—ma soprattutto dalla tenace intransigenza del suo antifascismo che lo rese poco sensibile al revisionismo storiografico che dagli anni sessanta trovò la sua più rigorosa espressione scientifica nell’opera di Renzo De Felice. Non erano pochi, peraltro, i punti di contatto tra Vinciguerra e De Felice. Anche Vinciguerra, come De Felice storico dei giacobini italiani prima di mettere mano alle ricerche sul fascismo, ravvisava nel movimento delle camicie nere qualcosa che ricordava la svolta rivoluzionaria del 1793—quando ebbe termine la fase liberale e costituzionale della Grande Révolution; e sempre, come De Felice, non esitò a vedere nel comportamento delle classi dirigenti del periodo seguito alla prima guerra mondiale la responsabilità storica e morale, dell’affossamento dello Statuto albertino. Senonché sulla scia di Luigi Salvatorelli, non fu convinto dalla caratterizzazione defeliciana del fascismo come rivoluzione dei ceti emergenti. Ne I partiti italiani dallo Statuto albertino alla partitocrazia, vide nei marciatori su Roma «un coacervo indiscriminato dei rottami sociali, lasciati, come sempre, da una lunga guerra, e fu opera di improvvisazione di un ristretto gruppo di uomini—giornalisti, organizzatori sindacali, agitatori di piazza—raccolti intorno alla redazione del ‘Popolo d’Italia’ e alla irruente personalità mussoliniana»; e, come gli storici della vulgata antifascista, non prese mai in seria considerazione l’idea del consenso di massa al regime. Nel Il fascismo visto da un solitario ed altri saggi sull’Italia dal 28 ottobre a oggi, Le Monnier, Firenze 1963, scriveva: «Questa serie di avvenimenti permette di trarre due importanti conclusioni. La prima è di una evidenza palmare. Se tra il 1920 e il '22 Ci fu una sorta di guerra civile in Italia, ed è certo, come può dirsi che il paese consentiva, delirava pel fascismo? Se ciò fosse stato non si capirebbe perché i fascisti si sarebbero dovuti presentare alla cittadinanza armati di bottiglie di olio di ricino, di randelli, di bombe a mano, e via dicendo. È vero che larghe zone della pubblica opinione erano disorientate, o, stanche e sfiduciate della faziosità delle due parti estreme e della fiacchezza governativa, si ritraevano dalle competizioni politiche. Ma è ugualmente vero che nelle due consultazioni elettorali del 1919 e del 1921 la popolazione votante – è da riconoscere che ci furono numerose astensioni –espresse chiaramente il suo pensiero. Nelle elezioni del 1919 Mussolini non fu in grado di mettere insieme altro che una sola lista, nella circoscrizione di Milano. Questa ebbe voti 4064 (nessun eletto). Nella medesima circoscrizione Filippo Turati ottenne il maggior numero di voti preferenziali fra tutti i candidati d'Italia: 198.314. Da quelle elezioni risultarono circa 200 deputati tra liberali e democratici, 156 socialisti,100 popolari (cattolici), ecc. Ammaestrato dalla dura lezione, nelle elezioni del 1921 Mussolini fece entrare i candidati fascisti nei ricordati ‘blocchi nazionali’. Con ciò, vale a dire la inclusione nella lista governativa e l'aiuto combinato dei prefetti e dei manganelli, di deputati fascisti non ne arrivarono alla Camera che più di 35 su 527».
Bastano queste citazioni per mostrare l’assoluta estraneità di Vinciguerra ad ogni tentativo di ‘riabilitare’ il fascismo, anche a costo chiudere gli occhi davanti a una assai più complessa vicenda storica certo inesauribile in tre protagonisti: la banda degli eversivi (i fascisti), le elite del potere, codarde e rinunciatarie (i partiti liberali) e il popolo bue (costretto a piegare la testa per paura di violenze anche peggiori di quelle messe in atto dai mussoliniani). Amico di Gobetti ne condivise il moralismo, la disposizione a sacrificare la vita per la libertà, il disprezzo per i politici che, come i sugheri, rimangono sempre a galla, nel mutare dei governi e dei regimi politici. E tuttavia Vinciguerra, grazie anche alla lezione di Croce, era più liberale di Gobetti giacché nei moti rivoluzionari—rossi o neri che fossero—non vedeva nulla di positivo ma solo la rottura di quel delicato equilibrio tra valori e interessi in conflitto che aveva fatto la grandezza e la forza delle istituzioni anglosassoni. Come per Jakob L. Talmon, per lui ogni rivoluzione era il risultato di una religione secolare—un islamismo laicizzato, per così dire—portatrice di devastazioni irrimediabili nei corpi e nelle anime dei popoli.
E fu sempre l’antifascismo a fargli raggiungere, negli ultimi anni della sua vita, le file dell’amico Randolfo Pacciardi, animatore del movimento per la Seconda Repubblica. Come avrebbe detto negli anni ottanta uno spregiudicato Presidente del Consiglio :nella repubblica italiana al partito unico fascista si sono sostituiti sette/otto partiti che, come il primo, hanno colonizzato le istituzioni, spartendosi il potere come i vecchi signori della guerra in Cina. Vinciguerra il cui forte senso dello Stato lo portava a venerare il nome di Silvio Spaventa—anche se nella polemica tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi si era ritrovato dalla parte del primo, la libertà del mercato sembrandogli non una opportunità ma la faccia economica del liberalismo—non poteva rassegnarsi alla partitocrazia, un termine dell’amico Giuseppe Maranini che fece proprio e credette di combattere la degenerazione della vita pubblica con una riforma costituzionale volta a rafforzare i poteri dell’esecutivo. Ne Il fascismo scritto da un solitario faceva rilevare che« la presente Costituzione. è nata male. È nata dopo i vent'anni della tirannia di prima, e la tirannia è tollerante per gli abusi del potere esecutivo, che la serve. I regimi che seguono ai tirannici sono perciò sempre portati a credere salutare che sia umiliato e reso poco efficace il potere esecutivo. È una follia, perché le nuove tirannie, in incubazione o dissimulate, si avvalgono allegramente degli scarsi poteri lasciati al governo per sopprimere un regime, che per metà si è soppresso da sé».
La vita e le battaglie ideali di Mario Vinciguerra mi vengono ogni volta in mente quando la retorica antifascista, ricomparsa negli ultimi anni con particolare virulenza, cerca di imporre il mito antifascista (nella forma della ricordata vulgata), per riattivare una guerra civile che gli antifascisti veri da me conosciuti (da Leo Valiani a Guido Calogero passando per Giuseppe Faravelli), come lui, avrebbero voluto finalmente archiviare. Ne I partiti italiani Vinciguerra non andava per il sottile. «Ed è una generosa illusione, da parte di coloro che con più pura passione hanno partecipato alla lotta per la liberazione al termine della seconda guerra, ma anch'essa altresì una illusione, quella di pensare che un rinnovamento della vita pubblica italiana potesse venire, a guerra finita, dal mondo della "resistenza", e che ancor oggi si possa rievocare quel nome per dare un impulso al rinnovamento che non c'è stato». Resistenza. «La parola, cominciata a correre sulle bocche dei nostri partigiani sul cadere del 1943, trovava una situazione di fatti e di spiriti del tutto diversa. Il regime fascista frantumato a Roma, polverizzato nel Mezzogiorno, trasformatosi al Settentrione in una repubblica autonoma giuridicamente, di fatto soggetta alla Germania, e inseguita dalle Erinni della guerra fratricida. Lo stato monarchico costituzionale, sorto con lo statuto del 1848, segregato nel Mezzogiorno, esautorato davanti alla nazione, sorvegliato dal vincitore, col quale aveva dovuto fare una pace incondizionata. Due eserciti stranieri che si contendevano a passo a passo il suolo dell'Italia. Da queste macerie di cose e di spiriti, al Settentrione italiani armati si ersero contro altri italiani armati, e gli uni e gli altri contro italiani inermi ed estranei alle spietate passioni di una guerra civile., Delle milizie irregolari delle due parti gli eserciti nemici si avvalevano per rincalzo, come sempre avviene in simili distretto. L'esercito regolare aveva cambiato bandiera, quello irregolare ne aveva più di una. Pertanto la parola "resistenza" ha nel nostro caso specifico il valore di una formula convenzionale, alludente simbolicamente a quella condizione eccezionale nella quale la guerra contro lo straniero si complicò e confuse con la guerra intestina. Per queste ragioni non si può costruire politicamente nulla sul tentativo di evocare una specie di mito della "resistenza", su cui i milioni di italiani comuni rifuggenti da passioni di parte formulano, e non possono non formulare, giudizi disparati, ciascuno secondo le proprie esperienze personali; ma tutti si accordano nel ricordare con orrore quei tempi, e, nel desiderare con ansia che non ritornino. Ancora una volta inchiniamoci al giudizio istintivo, elementare, se vogliamo, ma sano di coloro ai quali, tutto sommato, si deve ciò che di più solido e certo si sia fatto negli ultimi dieci anni: il salvataggio del paese da una tempesta di barbarie; la ricostituzione dei focolari domestici».
Sennonché il richiamo a un mito consunto era una pazzia non priva di una sua logica. Vinciguerra fu quasi l’unico antifascista a credere che Genova, con le giornate del luglio 1960, avesse segnato «una data nella storia d’Italia. La fase involutiva apertasi nel 1953 è giunta alla conclusione. L’Italia ha cessato di essere una repubblica parlamentare, e va prendendo la definitiva conformazione di repubblica dei comitati, emanazione diretta dei partiti.|…| Però sono in obbligo di avvertire che questo tipo di democrazia che è il regime dei comitati appartiene alla famiglia del regime corporativo fascista e del regime sovietico russo». Si può essere d’accordo o in disaccordo, è un fatto, però, che a Piazza De Ferrari il centro-sinistra e la togliattiana ‘democrazia progressiva’ vennero, per così dire, costituzionalizzati sicché ogni ritorno al centrismo e al centro destra sarebbero parsi un tradimento delle idealità resistenziali, con buona pace dell’alternanza destra/sinistra che è l’essenza della democrazia liberale ‘laica’. Gli elettori italiani avrebbero anche potuto votare in maggioranza per una coalizione di centro-destra ma questa sarebbe andata al governo in maniera legale priva, però, di una autentica legittimazione morale.
Vinciguerra aveva dato un giudizio talmente positivo sull’amnistia concessa da Palmiro Togliatti agli ex fascisti da assimilarlo (con evidente esagerazione) all’Editto di Nantes. La mobilitazione popolare contro il Governo Tambroni lo induceva ora a ritenere che fosse ricominciata la ‘guerra di religione’. In una pagina molto intensa e commossa—si ha ragione di credere che non sarà ripresa da nessuna antologia scolastica-- riassumeva il senso dell’evento politico che avrebbe spianato la strada al centro-sinistra, « Alla sera, i lugubri rottami di piazza De Ferrari non facevano offesa ai congressisti mancati, ma alle pure memorie di Gramsci e Gobetti, di Giacomo Matteotti e Giovanni Amendola, di Duccio Galimberti e Lauro de Bosis, ed altri, ed altri. Ora le medesime persone hanno accolto con soddisfazione e diffondono l'idea di estromettere il Movimento sociale dal Parlamento. Anche in questo caso il partito comunista può muoversi con relativa spregiudicatezza. In Russia s'è visto ben altro. Ma i partiti di sinistra, che dicono di volersi distinguere dal comunista, e che sono minoranze, non si avvedono della grave offesa e del grave pericolo incombente su tutte le minoranze, allorché un principio di questo genere facesse parte delle leggi fondamentali dello Stato?». E concludeva: «Giorni fa, presso a un chiosco, il mio sguardo s'è fermato davanti a un vistoso titolo di un periodico. Esso diceva: ‘Mobilitiamo le forze democratiche – Rendiamo impossibile la vita al fascismo’. Nell'anno 1925, dopo il discorso del 3 gennaio, un telegramma del ministero degli Interni alle autorità 4b Torino ordinava: ‘Rendere impossibile la vita a Piero Gobetti’. Contro il fascismo. Disgraziati. A migliaia ce l'avete nel sangue».
Maccari e Flaiano avranno sorriso malinconicamente leggendo queste parole giacché, ad accomunarli a Vinciguerra era l’idem sentire di quanti facevano parte dell’Italia di minoranza, per citare il saggio storico di Giovanni Spadolini. Però anche qui, c’è da intendersi: ‘Italia di minoranza’ solo nel senso che, nella classe dei dotti—accademici vari, giuristi, pubblicisti, opinion makers, prelati, personaggi dello spettacolo—i tre scrittori, e pochi altri con loro, facevano la figura delle classiche mosche bianche. In realtà, erano espressione di un realismo secolare e di un buon senso antico che gli Italiani hanno nel loro dna, lo stesso che impedisce loro di indossare, almeno troppo a lungo, la camicia nera o rossa.
(da HuffPost - 20 aprile 2024)