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DON LORENZO MILANI: UN PRESBITERO DELLA CHIESA FIORENTINA

 

Di                                  Fabiano D’Arrigo

 

Le celebrazioni in occasione del centenario della nascita di don Lorenzo Milani volgono ormai al termine.

E' utile, perciò, porsi una domanda.

Chi era Lorenzo Milani?

La risposta tutto sommato è semplice.

Lorenzo Milani era un presbitero della Chiesa cattolica: ha svolto il suo ministero prima come cappellano a San Donato di Calenzano e poi come priore a Sant'Andrea di Barbiana nella Diocesi di Firenze.

Come presbitero ha sofferto, e molto, a motivo delle avversioni, causate per lo più da incomprensioni e da motivazioni politiche, da parte di alcuni suoi confratelli sacerdoti e soprattutto da parte del suo vescovo il cardinale Ermenegildo Florit.

Papa Francesco il 20 giugno 2017 durante il suo pellegrinaggio a Barbiana ha pubblicamente riconosciuto l'esemplarità della missione sacerdotale di Lorenzo Milani.

Nel discorso commemorativo ebbe a dire: "La dimensione sacerdotale di Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. La dimensione sacerdotale è alla radice di tutto quello che ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito".

E poi, nella conclusione, il pontefice fece sue le parole di Alice Weiss madre del Milani: "Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto. Per esempio il suo profondo equilibrio fra durezza e carità".

Le dimensioni caratterizzanti il ministero sacerdotale e anche la vita di don Milani sono la sete di assoluto e l'obbedienza radicale.

Nel luglio 1943 Lorenzo Milani ventenne incontrò don Raffaele Bensi che divenne suo direttore spirituale e suo confessore.

E proprio don Bensi in un'intervista a Nazzareno Fabbretti del giugno 1971 ricostruisce l'incontro.

Un giovane che disse di chiamarsi Lorenzo Milani mi seguì in sacrestia, perché voleva parlare con me per salvarsi l’anima. Lo liquidai sbrigativamente dovendo recarmi al capezzale di un giovane prete morto. Lorenzo volle accompagnarmi e davanti al feretro disse: “Io prenderò il suo posto”.

Più avanti nell’intervista don Bensi afferma: “Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno… si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire. E così fu”.

Iniziò, così, la straordinaria avventura milaniana per “ridare ai poveri la parola… aprire [loro] la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole” (papa Francesco, Barbiana 20 giugno 2017).

La stessa Alice Weiss riconosceva che suo figlio Lorenzo era in cerca dell’assoluto che aveva trovato “nella religione e nella vocazione sacerdotale”: due profondi misteri di suo figlio.

E’ soprattutto l’obbedienza ciò che costituisce l’essere prete di Milani. Un’obbedienza piena e senza condizioni che si radica nel cuore della stessa fede del Milani e che implica una sua adesione totale al Vangelo e alla Chiesa.

La verità evangelica è una verità oggettiva, “ricevuta dall’alto, da Dio, dalla Rivelazione, da un libro sacro, da una chiesa che sia”, alla quale si deve l’obbedienza della fede; non è una verità soggettiva che “si costruisce con la nostra testa”; concretamente tale verità viene consegnata al presbitero nel rito della consacrazione dal vescovo che chiede l’obbedienza ed invia per l’annuncio ad gentes.

E questa verità religiosa cattolica, che viene dall’alto, assicura la salvezza ed il perdono dei peccati.

Per questo don Milani nel corso della sua vita ripeteva spesso che non intendeva per nessun motivo al mondo lasciare la Chiesa; perché, gettata la tonaca alle ortiche, non avrebbe trovato fuori della Chiesa una possibilità di salvezza ed in particolare non avrebbe ricevuto né dato il perdono dei peccati grazie al sacramento della confessione.

Inoltre il prete, secondo Milani, per obbedire alla verità, che viene dall’alto, deve stare in grazia di Dio ed utilizzare i mezzi pastorali che non sviliscano l’azione della grazia.

Per questo il Nostro critica aspramente la pastorale tradizionale che ricerca il passatempo ed impedisce l’agire della grazia, venendo rinnegato il primato della dottrina e dei sacramenti e proponendo un modello di vita alternativo alla grazia.

In Esperienze Pastorali don Milani racconta la crisi della pastorale tradizionale fatta di pallone e di cinema, di attenzione unica al “piccolo gregge dei sani che non han bisogno di medico”, mentre si trascurano i poveri e i lontani impedendo loro di conoscere il Vangelo.

Al riguardo scrive: “Ho visto una costruzione che… le manca ancora fondamento e muri. E allora ne ho avviata un’altra dalle fondamenta, una costruzione un po’ più ragionevole. Fondamento della preghiera liturgica è il possesso della dottrina. Fondamento della dottrina è (a mio avviso) quel minimo di padronanza del linguaggio… che manca a gran parte di questo popolo”. E poi rivolgendosi a don Piero prosegue: “E son sacerdote più io di te, che perdi tempo a raccogliere ragazzi col pallone. Di te che t’abbassi a costruire un cine parrocchiale mentre il mondo va in fiamme… che non hai adempiuto il tuo obbligo di portare i Sacramenti e il Vangelo agli adulti, ai lontani, ai nove decimi del tuo popolo… [di te che] ti dedichi… a curare il piccolo gregge dei sani che non han bisogno di medico, lasciando fuori [i molti] abbandonati alla tempesta”.

Quindi la nuova pastorale, per non svilire l’azione della grazia, dovrà favorire la “dottrina” ed i “sacramenti” verso i poveri che, mediante la scuola popolare, potranno inoltre acquisire una “padronanza del linguaggio” per divenire “uomini ardenti, preparati e coerenti”.

E’ evidente che don Milani concepiva il servizio educativo come conseguenza della vocazione e della missione sacerdotali e lo finalizzava unicamente alla consegna della salvezza ai poveri, verso i quali il priore intendeva esercitare una paternità evangelica libera da vincoli culturali e politici.

L’essere prete di don Milani non venne compreso da buona parte del clero fiorentino e soprattutto non venne accolto dalla curia né dal cardinale Florit.

Gli si rimproverava di essere un prete solitario, di non partecipare agli incontri diocesani, di essere un assolutista, di essere un classista, di non essere un padre ma un fustigatore.

Don Milani, per evitare che il suo apostolato a Barbiana e precedentemente a Calenzano venisse compromesso e non apparisse come una scelta soggettiva del singolo prete, quasi fosse un pastore protestante, ma risultasse un’effettiva missione esercitata a nome della Chiesa in mezzo ai poveri, ricercò più volte un sincero dialogo con il vescovo Florit e gli chiese con insistenza un segno pubblico di riconoscimento del suo lavoro sacerdotale.

Il 5 marzo 1964 il priore scrisse una lettera cordiale e fraterna a mons. Florit, dove all’inizio si legge: “Ho passato i miei 17 anni di sacerdozio tutto teso solo verso le anime che il vescovo mi aveva affidato. Pensavo… che il vescovo fosse un padre commosso della generosità dei suoi figli apostoli, preoccupato solo di proteggerli aiutarli benedirli nel loro apostolato… [poi] d’un tratto seppi la tragica realtà: la Curia fiorentina e il Vescovo erano un deserto!”.

Più avanti nella lettera don Milani, rivendicata la propria ortodossia e ribadita l’assenza di richiami e di rimproveri da parte dei superiori, chiede di essere onorato dal suo vescovo.

“Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato, qualcosa di simile all’opera d’un pastore protestante. Ma io non lo sono stato e lei lo sa”.

Ma invano. Non ci fu nessun riconoscimento dell’azione di don Lorenzo.

Bisognerà attendere il 2017, allorché a Barbiana il vescovo di Roma, papa Francesco, riconoscerà -come già ricordato sopra- “in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa”.

Alcuni mesi dopo, il 1° ottobre 1964, don Lorenzo Milani e don Bruno Borghi inviarono una lettera aperta ai sacerdoti fiorentini e per conoscenza all’arcivescovo sul problema del dialogo nella Chiesa. Essi espressero giudizi severi, talora parziali, ma sempre protesi verso un migliore bene possibile.

Tra l’altro vi si legge: “Il Papa ha chiamato i Vescovi a dialogo, perché il Vescovo chiamasse a dialogo i parroci, il parroco i parrocchiani lontani e vicini. Se manca un solo anello di questa catena il messaggio di Giovanni XXIII e il Concilio non raggiungono il loro scopo. A Firenze un anello manca certamente: il dialogo tra il Vescovo e i parroci e questo proprio nel momento in cui maturava l’esigenza del dialogo coi lontani: comunisti, ebrei, protestanti. Abbiamo da parlare con tutti e non parliamo al Vescovo e il Vescovo non parla a noi!... E’ l’ora di svegliarsi e d’accorgersi che la Chiesa fiorentina col suo muro tra Vescovi e preti è ormai al margine della Chiesa cattolica. Ma è anche al margine del mondo d’oggi… quel mondo [che] ci guarda con giusto disprezzo e si allontana sempre più da noi e dalle tante verità che a nostra volta potremmo offrirgli”.

E poi: “Quel che proponiamo è solo di creare una qualsiasi forma di dialogo tra noi [ovvero i sacerdoti] e lui [ovvero il Vescovo], un’usanza di parlargli, un nuovo stile di rapporto. Non è con i telegrammi d’auguri, il regalo di una croce pettorale e le genuflessioni che si mostra l’amore al Vescovo, ma piuttosto con la sincerità rispettosa, il rifiuto del pettegolezzo di sagrestia”.

Le reazioni di Florit furono furibonde.

 Nel suo diario l’8 ottobre il presule annotò: “[La loro] è pura demagogia. Non c’è posto per essi nella chiesa… quelli hanno ritenuto di dover aprire il dialogo calunniando il loro vescovo, e di contestargli i suoi doveri”. Ed ancora nel diario il 19 ottobre scrisse: “Purtroppo questi due non ispirano il dialogo col vescovo alla dottrina e allo stile del Vangelo, ma alla dialettica marxista”.

Florit, senza entrare nel merito della questione, nella circolare di risposta datata 11 ottobre 1964 si limitò ad offrire a don Milani e a don Borghi “le lettere di escardinazione”, perché i due sacerdoti potessero liberamente scegliersi “una Diocesi… in grado di corrispondere alle loro esigenze”.

L’appello al dialogo, la domanda di una pastorale più condivisa, i rapporti più sinceri tra i sacerdoti e con il vescovo -questioni queste sollevate nella lettera di Milani e di Borghi- restarono senza risposta.

E ciò fu motivo di amarezza e di sofferenza per don Lorenzo Milani che, comunque, rimase sempre un figlio devoto della Chiesa. E la sua opera -come ha affermato Giorgio La Pira a proposito di Esperienze Pastorali- “ha fatto e fa un immenso bene”.

In conclusione: Lorenzo Milani testimonia che il prete (e… aggiungerei il cristiano) deve aspirare all’assoluto, deve prestare l’obbedienza della fede, deve rinnovare l’azione pastorale, deve praticare il dialogo nella Chiesa.         

 

Lucca, 12 aprile 2024-04-12

 

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