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Che fare se neppure la sinistra israeliana crede più ai palestinesi?

 

di Federico Rampini

 

Lo storico israeliano Benny Morris è un caso emblematico di "ripensamento doloroso": la sua credibilità e la sua lunga militanza a sinistra dimostrano che il problema di oggi non si risolve solo con la cacciata di Netanyahu

 

Joe Biden è ai ferri corti con Benjamin Netanyahu, l'uccisione

di sette operatori umanitari che portavano cibo a Gaza è l'ultima tragedia ad aver esasperato le tensioni già acute fra la Casa Bianca e il governo israeliano.

I media Usa danno risalto alle nuove proteste di cittadini israeliani contro Netanyahu. Questo premier viene visto da molti come il problema numero uno, l'ostacolo da rimuovere per avviare un processo di pace in Medio Oriente. Si tende a sottovalutare quanto la tragedia del 7 ottobre 2023 ha spostato l'opinione pubblica israeliana. La sinistra a Tel Aviv non è più pacifista come una volta: pensa di essere stata tradita dai palestinesi, diffida di loro.

Un caso emblematico per la sua autorevolezza è il ripensamento doloroso di Benny Morris, forse il più grande storico israeliano contemporaneo. Il suo percorso intellettuale è istruttivo, anche perché ebbe inizio prima ancora della mattanza di civili ebrei da parte di Hamas. Oggi 75enne, Benny Morris è stato il capofila di quella che venne definita la corrente dei Nuovi Storici. Fu a lungo docente di storia mediorientale alla Ben Gurion University nella città di Beersheba. A partire dagli anni Ottanta sfidò l'ideologia dominante del suo paese, prendendo le distanze dal sionismo e adottando un approccio molto più comprensivo verso le ragioni dei palestinesi. Un suo saggio del 1988 sulle origini del problema dei rifugiati palestinesi dopo la Partizione del 1947 fu considerato una svolta: l'avvio di un'autocritica autorevole dell'intellighenzia israeliana. Quell'anno Morris passò 19 giorni in un carcere militare, per essersi rifiutato di prestare servizio come riservista in Cisgiordania.

La sua opera più importante è “Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001” edita in Italia da Rizzoli-Bur: un capolavoro di apertura mentale, equilibrio ed equidistanza. Ma oggi Morris è diventato molto più severo verso i palestinesi. Le sue critiche del resto ne hanno fatto un bersaglio di recenti contestazioni: una sua conferenza alla London School of Economics è stata il bersaglio di aggressioni da parte di studenti pro-Hamas.

In una recente intervista al Wall Street Journal, Morris racconta il suo percorso, molto rappresentativo di ciò che è accaduto alla parte più progressista della società israeliana. È utile ascoltarlo, anche perché le sue critiche hanno una risonanza in una parte del mondo arabo moderato, come l'Arabia saudita, che per ragioni simili ha preso le distanze dai palestinesi da decenni (anche se ora deve abbracciarne ufficialmente la causa, soprattutto di fronte alla tragedia umanitaria di Gaza).

Per Morris un punto di dolorosa svolta e ripensamento risale a 23 anni prima della strage di Hamas. È l'anno 2000, quando il presidente democratico Bill Clinton è il mediatore per un accordo di pace fra il premier israeliano Ehud Barak e il leader dell'Organizzazione per la liberazione palestinese (Olp) Yasser Arafat. Sul tavolo c'è l'offerta concreta di due Stati. Arafat la rifiuta. «Pensai che fosse un terribile errore da parte dei palestinesi, e lo scrissi», ricorda oggi Morris. Invece della pace quel che seguì fu un'ondata di attentati terroristici, di una violenza senza precedenti fino a quel momento.

Morris cominciò a sentirsi controcorrente, racconta, «perché molti preferirono perdonare i palestinesi, partendo dal principio che loro non sono mai responsabili, essendo vittime per definizione possono fare quello che vogliono».

L'opera di Morris che ho citato sopra, in inglese ha un titolo quasi intraducibile: “Righteous Victims” sta a indicare delle vittime che si sentono sempre dalla parte della ragione, con un senso permaloso e superbo dei propri diritti offesi (quel titolo si applica ad ambedue le parti nella ricostruzione storica dell'autore). Oggi, prosegue Morris nell'intervista al Wall Street Journal, «Israele viene visto come onnipotente in confronto ai palestinesi. In realtà noi siamo circondati da un mondo islamico egemonizzato dall'Iran, e l'Occidente ci sta voltando le spalle. Siamo noi la parte debole. In tutto il mondo la percezione è rovesciata: i palestinesi essendo la parte debole, hanno sempre ragione, anche quando fanno cose sbagliate come il 7 ottobre».

Morris accusa noi occidentali di non aver veramente aperto gli occhi su quel che accadde il 7 ottobre. Non solo la carneficina, le torture e gli stupri di civili inermi, donne e bambini. Ma soprattutto il vasto consenso della maggioranza dei palestinesi verso quelle atrocità. «A Gaza e in Cisgiordania esultavano perché 1.200 ebrei erano stati uccisi e 250 erano stati catturati come ostaggi». Il consenso palestinese verso quelle violenze ha raggiunto il 70% e non è mai sceso.

Morris ha passato la sua carriera di studioso a documentare tutte le ragioni storiche dei palestinesi, e non le dimentica. «Settecentomila fra di loro divennero rifugiati in conseguenza della vittoria d'Israele nella guerra del 1948 (provocata dall'offensiva araba, dopo il rifiuto arabo della risoluzione Onu sulla Partizione, ndr). Hanno vissuto sotto un'occupazione dal 1967. Capisco il loro desiderio di vendetta, la loro volontà di vedere la scomparsa dello Stato d'Israele. Non basta tutto questo a spiegare il 7 ottobre. Quel che abbiamo visto all'opera è l'antisemitismo musulmano, un livello di barbarie che va ben al di là del desiderio di vendetta per i torti subiti, un'ideologia malata e degli individui morbosi che uccidevano e stupravano in nome di quella ideologia».

Dove l'analisi di Morris converge con quella di alcuni paesi arabi moderati (come il Regno saudita), è nel ripercorrere gli errori dei palestinesi. «Ciascuna delle loro decisioni – dice lo storico – ha peggiorato la vita del loro popolo, e ha fatto sì che al passaggio successivo la proposta dei due Stati diventasse meno conveniente per loro. Nel 1937 ai palestinesi fu offerto il 70% della Palestina, rifiutarono e scelsero la guerra. Nel 1947 gli fu offerto il 45%, e la parte spettante agli israeliani era soprattutto desertica, di nuovo i palestinesi scelsero la violenza. All'epoca di Clinton potevano ottenere il 21-22% e scelsero l'Intifada. La prossima volta gli sarà offerto il 15%, questo è il risultato delle loro ripetute sconfitte nello sforzo di ottenere tutto per loro».

Una conclusione di Morris è questa: «Per decenni la sinistra e il centro in Israele volevano la soluzione di due Stati. Oggi non più. La maggioranza di noi israeliani teme che Hamas conquisterebbe il controllo della Cisgiordania. E la Cisgiordania diventerebbe la nuova base di attacco contro di noi, come lo è stata Gaza. Nessuno può imporre una soluzione basata su due Stati, perché non la vogliono gli arabi e non la vogliono gli ebrei».

Lo storico progressista è duro nel giudizio su Netanyahu, che definisce «un incompetente e un codardo». Aggiunge che «il resto del mondo osserva e giudica Israele in base all'immagine che ha di Netanyahu», perciò Israele ha subito una disfatta presso l'opinione pubblica internazionale «a causa di questo premier».

Tuttavia secondo Morris «Netanyahu ha ragione su un punto, e su questo ha l'appoggio della maggioranza di noi israeliani, me compreso: dobbiamo andare fino in fondo nella distruzione di Hamas».

Morris ritorna al suo lavoro sulla storia di lungo periodo, con questa osservazione che riprende il tema dei suoi lavori più celebri come l'affresco di

“Vittime”: «Gli arabi indigeni avevano un diritto a questa terra. Gli ebrei a loro volta avevano un diritto perché erano qui ancora prima degli arabi.

Gli arabi avevano all'origine l'Arabia, poi ci hanno aggiunto altri 24 Stati emersi successivamente. Gli ebrei invece hanno solo questo piccolo nastro di territorio. La maggior parte degli arabi fino al XX secolo capivano che questa terra era stata degli ebrei. Poi i palestinesi hanno radicalizzato il negazionismo sull'antica storia ebraica, hanno negato ogni traccia di presenza ebraica in Terra Santa».

Le analisi di Morris possono essere condivise o contestate. La sua storia personale, la sua credibilità, la sua lunga militanza a sinistra dimostrano che il problema oggi non si risolve solo con la cacciata di Netanyahu, come a volte sembrano sperare Biden, i democratici Usa, le sinistre occidentali.

 

 

(da www.corriere.it - 5 aprile 2024)

 

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