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Difesa comune, se l’Europa volesse davvero

 

diAngelo Panebianco

 

I temi delle elezioni: la sicurezza sarebbe centrale se i partiti nazionali fossero obbligati a fare campagna per il gruppo di cui fanno parte nel Parlamento Europeo

 

Dopo le parole di Trump che invitava Putin ad invadere i Paesi europei che non contribuiscono a sufficienza alle spese Nato, dopo l’assassinio di Navalny, e mentre arrivano cattive notizie sull’andamento della guerra in Ucraina, qualche ingenuo potrebbe stupirsi per il fatto che i governanti europei non siano impegnati — ogni giorno, reiteratamente — a spiegare alle opinioni pubbliche dei loro Paesi che occorre difendersi dal risorto imperialismo russo nel momento in cui la protezione americana è fortemente a rischio. Non è così. I leader vi accennano sì ma di sfuggita. Ogni Paese europeo ha la sua agenda e si discute solo di ciò che interessa davvero agli elettorati di ciascuno di essi. Salvo qualche tema che li accomuna: dai trattori all’immigrazione. La difesa europea resta, persino di questi tempi, ciò che sempre è stata: un argomento per iniziati. Ne trattano, nelle riunioni congiunte, i governi dell’Unione. Ma senza che ciò che si dicono in quelle sedi venga travasato nel dibattito pubblico. Per il resto, continuano ad occuparsene prevalentemente i militari e gli esperti di politica internazionale sotto l’occhio, fra il distratto e l’annoiato, delle opinioni pubbliche europee. Insomma:politics as usual, la politica come al solito. Si dà il caso però che i tempi in cui viviamo non siano affatto i «soliti». Per esempio, ci sono Paesi europei (quelli presi di mira da Trump) che tuttora spendono per la difesa meno del 2% richiesto dalla Nato.

Perché non abbiamo ancora sentito i leader di quei Paesi spiegare ai cittadini dove prenderanno le risorse necessarie per raggiungere il risultato? Ottant’anni di pace ininterrotta ci hanno abituato a pensare che lo Stato serva, prima di tutto, a regolare la vita economico-sociale e a erogare servizi (sanità, pensioni, eccetera). Ma le suddette prestazioni sono subordinate a una esigenza che è non solo logicamente ma anche praticamente prioritaria: proteggere i cittadini dalle minacce che si profilano. L’unico cittadino che può usufruire delle prestazioni di welfare è quello che resta vivo o che comunque è immerso in un ambiente in cui la sua sicurezza fisica sia sufficientemente tutelata. Se, inoltre, è il cittadino di una democrazia, è anche la sua libertà, e quella del suo Paese, che lo Stato deve garantire. Asili nido e trattori vengono dopo.

Si parla dell’istituzione di un Commissario europeo alla Difesa e Ursula von der Leyen, che si ricandida alla presidenza della Commissione, sembra intenzionata a fare della sicurezza europea il principale tema del suo secondo mandato. Ma ci sono due problemi. Il primo riguarda la guerra in Ucraina. Non c’è nulla di retorico né di falso nella tesi secondo cui in quella guerra è in gioco, oltre che la sorte degli ucraini, quella dell’Europa intera. Sarebbe davvero difficile garantire la sicurezza dell’Europa se Putin, magari con la complicità di Trump, vincesse quella guerra. Il secondo problema riguarda il fatto che ripristinare condizioni di sicurezza in Europa passa certo per la creazione di un solido sistema di difesa comune che compensi l’eventuale disimpegno americano ma, a sua volta, tale solido sistema non può nascere se la politica europea non è in grado di esprimere una leadership che lo governi e lo indirizzi. Ed è precisamente l’impossibilità, nelle condizioni attuali, di generare una tale leadership il vero punto dolente, l’ostacolo contro cui si infrangono tutti i buoni propositi. È la ragione per cui la sicurezza dell’Europa dipende e — c’è da temere — continuerà a dipendere anche in futuro dalle scelte elettorali dei cittadini americani. La leadership che serve alla difesa dell’Europa potrebbe darsi solo se i governi (in primo luogo di Germania, Francia e Italia) stringessero un patto di ferro che avesse come obiettivo prioritario la sicurezza. Ma la possibilità che un tale patto si realizzi dipende dagli elettori. Poiché in democrazia sono sempre gli orientamenti delle opinioni pubbliche a condizionare le scelte dei governi.

Da questo punto di vista, si può dire che le imminenti elezioni europee siano una occasione sprecata. Sentiremo di nuovo deprecare moralisticamente, come si è sempre fatto, l’assenza dei temi europei nella campagna elettorale. Se non che, fino a quando le campagne per le europee saranno organizzate come sono oggi, e come sono sempre state, quella assenza è inevitabile. Tali elezioni hanno ovviamente effetti sugli equilibri nel Parlamento europeo ma continuano ad essere vissute dalle opinioni pubbliche come un (costosissimo) sondaggio sui generis per valutare forza e debolezza dei partiti all’interno dei contesti nazionali. Si provi ad immaginare cosa invece accadrebbe se a presentarsi in ciascun Paese alle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo non fossero i singoli partiti nazionali ma i raggruppamenti europei (popolari, socialisti, conservatori, eccetera), se i candidati dei singoli Paesi fossero inseriti in liste che portano solo i nomi di quei raggruppamenti, se, in definitiva, i partiti nazionali fossero obbligati a fare campagna per il gruppo di cui fanno parte all’interno del Parlamento europeo. In tal caso, i temi europei (sicurezza in testa) diventerebbero centrali nelle campagne elettorali. I candidati sarebbero costretti a parlare di Europa, ossia di cosa il raggruppamento di cui fanno parte propone e vuole fare. E forse le opinioni pubbliche potrebbero essere più coinvolte nelle questioni davvero vitali per il futuro dell’Europa.

L’Europa possiede le risorse per garantirsi la sicurezza. Si tratta di capire se ne avrà anche la volontà.

 

(da www.corriere.it - 24 febbraio 2024)

 

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