logo Fucinaidee

Quando l’antifascismo diventa totalitario

 

Di Dino Cofrancesco

 

Da De Felice (e Marco Revelli) fino ai giorni nostri: i limiti logici di una religione o peggio di una vulgata. “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti” (Vangelo): la guerra civile è finita, andiamo in pace

 

L’antifascismo, disse Renzo De Felice nell’Incontro con Lucio Colletti al meeting di Comunione e Liberazione del 23 agosto 1988 “è stato un fenomeno che va visto e ripensato oggi storicamente, criticamente perché con la trasformazione e — per molto aspetti — con l’isterilimento della vita politica italiana, è diventato una sorta di fiocco che ha solo la funzione di tenere insieme delle forze politiche diverse ma con comuni interessi di controllo e di dominio della vita politica italiana”.

Quarant’anni dopo, il fiocco è diventato un nodo scorsoio che si stringe al collo dell’imprudente che osa mettere in dubbio quella che lo storico reatino chiamava la “vulgata antifascista”. Vero è che l’insofferenza di De Felice per la retorica ufficiale lo portava a qualche eccesso, come la richiesta, nel corso dell’intervista a Pasquale Chessa, Rosso e Nero (Baldini & Castoldi 1995), di abolire il divieto di “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” contenuto nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana. In realtà, quel divieto era più che giustificato (tra l’altro i padri costituenti interdirono ogni attività politica agli esponenti del fascismo solo per cinque anni…), se si considera che il regime aveva invaso uno Stato sovrano, iscritto alla Società delle Nazioni, l’Etiopia, aveva varato le infami leggi razziali e, soprattutto, aveva legato l’Italia alla Germania nazista rendendosi obiettivamente complice dei crimini contro l’umanità perpetrati da quest’ultima.

E tuttavia, a spiegare la provocazione di De Felice, fu un implacabile critico di Rosso e Nero, lo scienziato politico torinese Marco Revelli, nel saggio Le due Destre (Bollati Boringhieri 1996), che rilevava come al centro del pamphlet ci fosse “una forte, quasi ossessiva progettualità politico-ideologica: la riproposizione di una identità nazionale unitaria del ‘popolo italiano’ contro le scissioni della sua storia. La fondazione di un nuovo patriottismo nazionale, al di là della contrapposizione fascismo/antifascismo, e più in generale al di là di ogni contrapposizione etico-politica vissuta come sfida all’unità morale degli italiani”. Sì, era proprio questa l’intenzione di De Felice, come ho fatto rilevare altre volte e, in particolare, nel saggio Quel che la democrazia liberale deve a Renzo De Felice (’Nuova Storia contemporanea’ a. XVIII, n.6 novembre-dicembre 2014). Per lui solo riconsegnando il fascismo alla storia italiana--come auspicava Augusto Del Noce da tutt’altre sponde filosofiche e ideologiche--era possibile ricreare una identità nazionale, che sostenesse le istituzioni democratiche e liberali rinate con la Resistenza.

Ciò significava mettere in soffitta la “vulgata antifascista”, le demonizzazioni dei tanti connazionali che avevano creduto al – e collaborato col – regime ovvero fare del tragico “errore” rappresentato dalla dittatura la responsabilità collettiva di tutti gli italiani, sia di quelli che avevano affossato le libertà politiche sia di quelli che non avevano saputo — o voluto o potuto — difenderle. Ma soprattutto significava prendere atto che, nel bene e nel male, il fascismo aveva cambiato l’Italia, creando istituzioni, codici, infrastrutture, culture destinate a  sopravvivere al 25 luglio.

Ne dava atto a De Felice uno scienziato politico, anche lui torinese, Gian Enrico Rusconi che,  in un articolo pubblicato su La Stampa, De Felice vent’anni dopo: senza la Nazione, ricordava il suo legato spirituale: ”l’Italia ha bisogno di ricuperare un senso di solidarietà legato all’idea nazionale. È questo fattore culturale che può tenerci uniti”. Era la stessa preoccupazione espressa dall’amico e collega di De Felice, Rosario Romeo, che al tema della nazione aveva dedicato una magistrale voce sull’“Enciclopedia del Novecento” (1979).

Oggi di De Felice, di Romeo, dello storicismo liberale e della scuola crociana si parla sempre meno —e lo stesso Gian Enrico Rusconi, uno studioso fortemente radicato nella cultura torinese ma lontano dalle sue rigidezze ideologiche, sembra scomparso dal circo massmediatico. In compenso l’antifascismo è diventato un fattore divisivo in cui non si sarebbero riconosciuti i grandi antifascisti che ho avuto il privilegio di conoscere e di frequentare, Guido Calogero, Giuseppe Faravelli, Leo Valiani: una Santa Inquisizione laica volta a combattere ogni accenno di sia pur vaga riabilitazione del regime e delle sue opere. Ormai affermare che “il fascismo ha fatto anche cose buone” significa condannarsi alla gogna mediatica. (capitò a Silvio Berlusconi ma non al giudice costituzionale, noto per il suo sinistrismo, che mi disse la stessa cosa, in camera caritatis, attraversando in macchina i quartieri della capitale costruiti nel ventennio).

Intendiamoci, uno stato liberale non può non considerare fatti criminosi il ricordato conflitto etiopico, le leggi razziali, la guerra di Spagna, l’Asse Roma-Berlino etc. Chi ancora oggi li giustifica (per fortuna un’assai esigua minoranza) non può rappresentare il paese, a qualsiasi livello — politico, amministrativo, culturale. Sennonché dai “nostalgici” si esige di più, molto di più, e quel che si esige rivela una vocazione totalitaria che costituisce la peggiore eredità del regime. Mi riferisco alla pretesa che quanti condannano i crimini di un regime (comunista o fascista che sia) siano tenuti a considerarli iscritti nel suo DNA fin dagli inizi. In questo modo, però, non ci riferisce più a fatti certi e documentabili ma si pretende che la loro interpretazione — il loro inserimento in un percorso storico obbligato – diventi il credo del buon cittadino in ossequio alla verità di Stato. Così ai Fratelli d’Italia –e tanto più ai suoi esponenti di governo – si chiede non solo di condannare le pratiche del regime della seconda metà degli anni Trenta ma, altresì, di considerarle inscindibili dalla natura e dall’essenza del fascismo.

Si potrebbe, al limite anche consentire — dimenticando, ad esempio, che fu un’ebrea, Margherita Sarfatti, a coniare il termine DUX e che non pochi fascisti, a cominciare da Italo Balbo, non condivisero le leggi razziali, né l’alleanza con la Germania né, tanto meno, la costituzione della RSI, alla quale non aderì neppure il più prestigioso storico del regime, Gioacchino Volpe — ma come non vedere che, in tal modo, si resta sul piano dell’opinabile, del discorso che non metterà mai tutti d’accordo?

Da un cattolico si può esigere la condanna dell’Inquisizione ma sarebbe assurdo fargli ammettere che le sue pratiche sono iscritte nei Vangeli o nella dottrina della Chiesa. Analogamente può darsi che Karl Popper abbia ragione nel reputare il Gulag iscritto nella marxiana negazione della società aperta ma, anche in questo caso, ripeto, sempre di interpretazioni si tratta, la cui verità non è garantita dalla Ragione. Un cattolico può sempre dire che i roghi su cui si arrostivano gli eretici erano un tradimento del messaggio cristiano e un comunista può asserire, con identica convinzione, che lo stalinismo (e lo stesso leninismo) non ha nulla a che fare col Manifesto del partito comunista. Alla stessa maniera, un nostalgico del Ventennio potrebbe sottoscrivere le parole di Gianfranco Fini – “Il fascismo fa parte del male assoluto”, “Le leggi razziali furono un’infamia”, “Salò fu una pagina vergognosa” – senza rinun-ciare alla sua ammirazione per le grandi opere del regime, dalle bonifiche a Cinecittà, dagli enti previdenziali a imprese culturali come l’Enciclopedia italiana.

E la dittatura, si dirà? Il discorso non cambia molto. Si può non condividere l’opinione che nelle condizioni politiche ed economiche in cui si trovava l’Italia nel 1922, solo un regime dittatoriale poteva riportare l’ordine e la ricomposizione del tessuto sociale lacerato dalla guerra ma se tale opinione è accompagnata dal convincimento che oggi non ci sono più quelle condizioni e che la lealtà nei confronti delle istituzioni repubblicane è un dovere assoluto e indiscutibile, perché questo non può bastare a legittimare una formazione politica? In fondo, tutti i partiti al governo e tutti i regimi politici si sono macchiati di gravissime colpe ma chi potrebbe dire che i genocidi  del democratico Belgio nel Congo fossero un portato della sua political culture?

Chi come me ritiene che la “peggiore delle democrazie sia preferibile alla migliore delle dittature” non potrà mai perdonare al duce e al re la soppressione delle libertà statutarie ma perché non prendere in realistica considerazione che non per tutti “la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle dittature”? E in ogni caso, non era una diversa dittatura quella che una notevole componente del movimento partigiano avrebbe voluto sostituire alla dittatura fascista? Un grande benemerito della democrazia italiana come Mario Scelba spense quelle velleità, costringendo tutti al rispetto delle libertà costituzionali sicché quanti avrebbero voluto “fare come la Russia” diventarono attori sociali che avrebbero contribuito a chiudere la stagione del terrorismo. Invece di rallegracene, dovremmo continuare a fare il processo alle intenzioni, come in fondo fanno, per la destra al governo, tanti columnist e opinion makers che con l’antifascismo vorrebbero nascondere il vuoto di idee che i grandi sconvolgimenti contemporanei — a cominciare dal secondo ‘89 — hanno prodotto nelle loro menti?

“E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti». (Matteo 8, 18 22)

La “guerra civile” è finita e rassegniamoci a giudicare i politici in base a quel che fanno e non in base a quel che rimpiangono. E se qualcuno ha il busto del duce sul tavolo della scrivania lasciamo pure che sospiri: “Ah se non avesse fatto la guerra!”. Anni fa sulla scrivania di un assessore regionale della Liguria vidi un busto di Stalin. Non me ne scandalizzai più di tanto: l’interpretazione che il comunista dava della storia sovietica era, a dir poco, discutibile ma l’amministratore pubblico si faceva apprezzare per le iniziative che prendeva  e il sostegno dato a iniziative civiche di grande valore.

 

(da HuffPost - 11 gennaio 2024)

 

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina