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Dall'appiattimento ci rimette tutto il Pdl

di Filippo Facci

Dall'appiattimento ci rimette tutto il Pdl
Il partito più grande del dopoguerra non può non essere plurale

Ci fosse un cane che, invece di fare la mera conta dei deputati e dei senatori, avesse anche voglia di discutere se le ragioni addotte al divorzio Fini-Berlusconi abbiano o no qualche fondamento, qualcuno che voglia discutere la ripartizione dei torti e delle ragioni non soltanto sulla base dei rapporti di forza. A me, per esempio, non importa nulla del divorzio in sé, m’importa che probabilmente andrà a catafascio anche il banalissimo assunto secondo il quale il partito più grande del dopoguerra dovrebbe avere delle pluralità al proprio interno, quelle identità che corrispondono alle mille sfumature della società e la cui sintesi, un tempo, era il motore della politica. Detto in termini medici: Fini potrebbe aver torto nella terapia, e magari andarsi presto a schiantare: ma la sua diagnosi è proprio tutta sbagliata? Sicuri che i problemi da lui posti siano soltanto dei pretesti per reclamare fette più generose di potere?

È in tal senso che si può, secondo me, essere “finiani senza Fini”, e guardare con simpatia al sommovimento che aveva creato: anche se non si aveva nulla a che spartire col suo retroterra culturale, col suo passato, con le sue metamorfosi. L’amplissimo centrodestra italiano, del resto, non è diviso solo tra berlusconiani e finiani, non porta soltanto i mocassini e le giacche berlusconiane in alternativa al maledetto “cachemire” che si tende a immaginare su chiunque appaia diverso dall’archetipo che ci piace.

Io non so se Fini corrisponda a un socialismo tricolore, a una destra europea o dei diritti o delle istituzioni; so che qualcosa però si muoveva, mentre dall’altra parte c’è Berlusconi e basta. C’è lui, che non è poco, ma oltre a lui ci sono solo i suoi yesman, i suoi oligarchi eletti con voti di lista, il Porcellum, la selezione per casting, i pigia-bottoni del Parlamento, e tanta, troppa gente euforizzata dal potere e disposta perciò  a sostenere ogni cosa e pronta a obiettare che «il popolo lo vuole», anche se magari non è vero, lo vuole Tizio, lo vuole Caio, lo vuole la Lega, lo vuole il Vaticano.
C’è Berlusconi e sempre sia lodato, ma, a strascico, c’è anche un partito con organismi fittizi, un ufficio di presidenza pressoché inesistente, una direzione nazionale mai convocata, nessuna discussione che faccia da base all’intuizione fulminea del leader. C’è un ex movimento liberale di massa che ha ceduto il posto a una linea clericale – per fare l’esempio più facile – la quale però non è mai stata deliberata, discussa, ufficialmente decisa.
C’è una truppa in panico da ricollocazione che liquida con arroganza ogni dubbio vedendolo come debolezza, gente che  in mancanza d’altro ha nella fedeltà a Berlusconi la sola stella polare. Quindici anni di elaborazione del centrodestra, nato con Berlusconi, hanno dato questo: Berlusconi. L’assioma contiene tutti i pregi e i difetti del caso.

Ma, ripeto, il centrodestra non è diviso soltanto tra finiani e berlusconiani: ce n’è anche una parte – ampia, laica anche quando cattolica – che è sempre stata al posto giusto e non ha neppure avuto bisogno di innovarsi, questo mentre altri, a destra e a sinistra, annegavano nella rispettiva brodaglia ideologica.
È gente che votava il pentapartito e oggi vota Pdl, non c’è dubbio: ma la loro, in mancanza d’altro, dopo 15 anni, resta una delega rilasciata pressoché in bianco. La sera, in televisione, vedono Sandro Bondi o Maurizio Gasparri e si chiedono se li rappresenti: non per antipatia, ma perché non ne possono più del ring e dell’eterno referendum su Berlusconi. Forse, chissà: tra loro ci sono anche i tanti o tantissimi che alle regionali non sono andati a votare.

Molti berlusconiani non pensano che ci sia un universo a nome del quale Gianfranco Fini ha costruito un potere: pensano che ci sia un’aspirazione di potere dietro la quale Fini ha costruito un finto universo. E tutto può essere, la decrittazione immaginifica dei finiani – fatta perlopiù da sinistra  – non mi entusiasma: ma i finiani esistono, come tanti altri, ed esistono a fronte di un Pdl che doveva o poteva essere, date le sue dimensioni, come un crogiolo: ma che nei fatti, come si è visto, non fonde, bensì scarta, seleziona, esclude a seconda delle stagioni. In questa stagione il Pdl sta appaltando la propria identità a chi ha il merito di averne una: una Lega. È la cosa migliore? Può darsi anche questo. Ma domani?

In attesa di saperlo, il Pdl è un partito plebiscitario con venature populiste. Lo è perché lo si vuole così. Non ha un progetto per cui chiede voti, ma chiede voti per elaborare un progetto. Meno male che Silvio c’è. Meno male che Tremonti c’è. Eccetera. Questo non piace a tutti, e Fini su questo sfondo è divenuto il reagente di tutte le contraddizioni, lo sfiatatoio di apnee che forse duravano da troppo tempo. A molti interessa solo fare la conta, a me interessa che l’ennesima identità, quale che sia, andrà probabilmente annacquata. È davvero un peccato.

(dal quotidiano Libero, ediz. del 17 aprile 2010)

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