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Partiti politici: genesi, evoluzione, crisi.
(Il futuro dei partiti)

Di Andrea Talia.

Premessa.

Il partito politico puo’ identificarsi come “un’associazione rivolta a un fine deliberato, sia esso oggettivo (si pensi all’attuazione di un programma) sia personale (diretto ad ottenere benefici, potenza e pertanto onere per i capi e i seguaci”). (1)
Questa definizione evidenzia il carattere associativo (2) del partito politico, la natura della sua azione, la molteplicita’ di spinte e motivazioni implicanti una politica associata. Quindi – come detto – finalita’ oggettive e/o personali.
Nella nozione di “partito” rientrano tutte quelle organizzazioni della societa’ civile sorgenti allorquando si riconosce (teoricamente e praticamente) al popolo il diritto alla gestione del potere politico. Naturalmente il tipo di mobilitazione, gli strati sociali coinvolti, gli interessi (concreti e ideali) perseguiti, determinano, in gran parte, le caratteristiche distintive dei gruppi politici che cosi’ si formano.
Diciamo, inoltre, che i partiti, organizzati o no, pesanti o leggeri, sono strutture che si adattano all’ambiente. Infatti, a seconda che il retroterra sia positivo, inquinato, di sostegno al mercato, di maggiore spesa pubblica e di clientelismo, i partiti soddisfaranno la richiesta. Quindi il partito viene dopo rispetto alla societa’. E’ dalla societa’ che dovrebbe partire la bonifica. Da una “buona societa’”, un “buon” partito.

La genesi.

I partiti politici non hanno mai goduto di buona fama.
L’etimologia del termine cospira per la valenza negativa. Partito deriva dal latino “partire”, concetto questo, che implica l’ida della divisione, della separazione, della parte. E implicitamente: del conflitto e della lotta.
Tutta la cultura occidentale ha invece sempre esaltato il contrario: l’unita’, l’armonia, la concordia. Originariamente, quindi, la sovrapposizione fra fazione e partito ha delegittimato quest’ultimo, per secoli. Sosteneva Thomas Hobbes, l’autore del Leviatano, “e’ dovere dei principi, dissolvere e distruggere le fazioni. Perche’ esse sono come una citta’ dentro la citta’, vale a dire un nemico interno” (3).

Ancora nella meta’ del XVIII secolo, i rivoluzionari francesi, osteggiano i partiti. Temono la loro forza disgregatrice volta a coartare e deviare il principio di rappresentanza individuale. La legge Le Chapelier (1791) rafforza questa convinzione. “Tra lo Stato e il cittadino, non deve interporsi nulla”.
Parimenti, al di la’ dell’Atlantico, i padri fondatori degli Stati Uniti condivideranno la stessa insofferenza per le “democrazie pure”, dove i conflitti di interesse e di parte avrebbero nociuto al bene comune. Con James Madison e Tocqueville, peraltro, cominciano le prime aperture verso la legittimita' dei partiti. In particolare Tocqueville, pur riconoscendo che il partito “e’ un male necessario in un governo libero”, mette in guardia dal pericolo rappresentato dai “piccoli partiti”. Da quelle associazioni, quindi, mosse da interessi particolari, guidate da persone ambiziose e egoiste. Etichettate, spregiativamente, politicien (termine, poi, entrato nel lessico politico).

Peraltro, solo nella prima meta’ del XIX secolo, i partiti, fanno la loro stabile comparsa in Inghilterra, il Paese di piu’ lunghe tradizioni liberali.
Il Reform Act (1832), allargando il suffragio, permette la gestione degli affari pubblici, unitamente all’aristocrazia, anche ai ceti industriali e commerciali del Paese.
Altre nazioni, seguono, piu’ tardi. In Germania, con la formazione dei Partiti liberali della borghesia (1840); in Italia, dopo l’unificazione nazionale (1861).

IL partito al centro della vita politica.

Nel secolo breve, il cammino dei partiti, segue due piste, apparentemente opposte. In realta’ accomunate dalla centralita’ del loro ruolo, nel sistema politico.

A) Da un lato: il partito di massa, di ispirazione socialista e confessionale. Dotato di:
- – una struttura stabile e articolata;
- regole rigide e rituali procedurali codificati;
- funzionari, preparati (scuole di partito) e retribuiti, specificatamente.

In particolare, i movimenti socialisti promuovono un nuovo modo di convivenza civile (i partiti) veicolato dalle classi subalterne, emancipate socialmente e politicamente.
Mancando i “nobili” in grado di finanziarne l’attivita’ e l’organizzazione, vengono introdotte la “tessera” e le “quote”: vale a dire contributi periodici da versare al partito.

B) Dall’altro, il partito “totalitario” bolscevico e nazionalsocialista.

L’ostilita’ alla frammentazione (sul versante sociale) e all’eliminazione di ogni dissidio interno (sul versante politico) porta alla riduzione ad unum. Un solo partito, a guida carismatica, totalizzante, tentacolare. Si pensi al PNF, al Partito nazionalsocialista (post Norimberga), al PCI dell’Urss.

Versione ulteriore del partito di massa (sub A) il partito elettorale di massa, questo si’ a vocazione liberale. Il suffragio universale motiva a raccogliere – democraticamente – il maggior numero di voti per arrivare ad occupare le posizioni di potere (nazionali e/o locali).

Metamorfosi dei partiti politici.

L’evoluzione delle forme organizzative della politica del secondo Novecento, puo’ essere cosi’ periodizzata (4):

a) Partiti politici di massa (1945-1968).

Dopo la seconda guerra mondiale, il partito politico (nelle sue varie accezioni) e’ all’apogeo della sua forza e della sua legittimita’.
La lotta di liberazione dal nazifascismo condotta dai partiti in clandestinita’, assegnano loro uno status di interpreti legittimi della volonta’ popolare. Una ventata di democrazia, dopo il “bieco ventennio”, coinvolge, positivamente, anche i partiti. Essi raggiungono latitudini inusitate in termini di iscritti, simpatizzanti, sedi, organizzazioni fiancheggiatrici (5).
Si radica, nella realta’ della vita politica, il partito di massa. Frutto di una societa’ industrializzata, urbanizzata, segmentata in precise classi sociali, portatrici di interessi diffusi, politicamente schierati a seconda del credo politico praticato.
Piu’ specificatamente, questo partito, si accredita e si caratterizza per:
- essere diffuso territorialmente e capillarmente (sezioni, federazioni, direzioni centrali, regionali, provinciali, comunali) (6);
- essere aperto, pur con talune garanzie, a tutti;
- fornire luoghi di discussione politica e di socializzazione;
- selezionare attraverso meccanismi non sempre limpidi, la classe dirigente;
- elaborare politiche e prendere decisioni, comunque approvate e filtrate dalla base.

Conclusivamente, i grandi partiti nazionali (DC, PCI, PSI) (7) costituiscono aggregazioni popolari, riformiste, a vocazione proporzionale.

Ben presto, peraltro, la politica, perde la carica “resistenziale”, morale e di alto profilo. Diventa di bassa cucina, spartitoria, clientelare. I partiti, dominati da chi riusciva a scalarli attraverso il tesseramento e il controllo del consenso sul territorio, ne sono il veicolo privilegiato.
Subentrano: il bipartitismo imperfetto, la conventio ad escludendum, il centralismo democratico. IL feudalesimo dei partiti sfocia nella partitocrazia. Fenomeno degenerativo in cui il “totus politicus” tocca, degradandoli, tutti i settori: politici, sociali, ed economici (8).

b) Partiti e movimenti (1969-1992).

La crisi di credibilita’ dei partiti si aggrava nel decennio degli anni Settanta.
Cio’ sia per la nascita delle Regioni che del Servizio sanitario nazionale. Si amplia la “tela di ragno” dei partiti a livello territoriale, domina l’”accordo” come sottoprodotto del compromesso, la lottizzazione selvaggia. Si oscura, cosi’, l’idea della democrazia, usurpata e violentata da parte di gruppi e apparati, che alterano nel profondo i contenuti originari della sovranita’ e della delega dei cittadini.

In questa temperie, le fonti di finanziamento sono duplici:
- controllo di settori pubblici dell’economia e dei servizi;
- emanazione di leggi sul finanziamento pubblico dei partiti (9), attraverso vari canali legali: rimborsi per le elezioni a vario titolo; varo di leggi speciali; aumento di vecchie e nuove voci connesse a incarichi politici; finanziamenti dell’Unione Europea.
- Le fonti descritte rappresentano una sorta di “risposta” del ceto politico (per l’occasione, straordinariamente coeso) al referendum del 1993 che aveva abolito il finanziamento pubblico ai partiti.

Negli anni Ottanta, continua e si aggrava la crisi dei partiti. Cause:
- subentra una societa’ liquida (l’espressione e’ del sociologo Zygmund Bauman) individuale, del rischio, non etichettabile;
- spariscono le ideologie. Attenzione pero’ a dare giudizi, sul punto, netti. Infatti, se si intende per “ideologia” un credo cieco e catechistico, allora si’, il suo esaurimento e’ stato un bene. Ma se l’ideologia e’ un sistema di ideali e di valori, grazie ai quali, la politica si e’ mossa per diversi decenni in vista di interessi generali, allora la sua estinzione non e’ stata positiva;
- si utilizzano, in maniera massiva, strumenti visuali che (in parte) soppiantano i mezzi di comunicazione a stampa. Dall’homo sapiens all’homo videns (ci ritorneremo);
- i partiti appaiono sempre piu’ avidi e corrotti, condotti da una vera e propria “casta”;
- stante la piu’ ampia offerta di socializzazione/occupazione del tempo libero, diminuiscono gli incentivi – collettivi/simbolici – per la partecipazione ai partiti. Si rafforzano, invece, quelli particolaristici/materiali per gli iscritti (trattati a guisa di clientes).

La contestazione del “68”, e’ il detonatore (tra l’altro) di movimenti giovanili (e non) che si affiancano ai partiti. Il loro credo: - rifiuto dell’autorita’ nelle possibili versioni: famiglia (“voglio essere orfano”: si legge sui muri di qualche universita’), scuola (10), fabbriche, partiti; - superare, nei suoi cardini fondamentali, il sistema capitalistico, visto come sistema di sfruttamento e di oppressione delle c.d. “classi subalterne”.

Esprimiamo qualche veloce considerazione sui movimenti.
Gli studiosi (intellettuali, politologi, storici), sul punto, hanno oscillato:
- tra un’adesione appassionata, come speranza palingenetica di trasformazione dei sistemi sociali oltre la politica (11);
- e rigetto di forme di partecipazione extra-istituzionali, non canalizzate nell’ambito tradizionale del funzionamento dei sistemi sociali (12).

Chi scrive e’ per la seconda tesi.
Siamo convinti che per fare politica in senso dignitoso, come missione e come governo democratico del consenso, occorrano due condizioni:
- una positiva: la politica, da praticare nell’alveo dei canali istituzionali, e’ un’attivita’ con regole sue proprie. Non si improvvisa e non puo’ esercitarsi cavalcando solo l’onda delle emozioni (del momento). Al contrario: postula tirocinio, cultura di base, approccio pragmatico e professionale in grado di saper scegliere opzioni praticabili. Si potrebbe dire, con una frase di Benedetto Croce, che la politica "e' un'arte a se stante;
- una negativa. Il mestiere del politico non si puo’ farlo per sempre. Chi si dedica solo alla politica, chi vive di solo politica, chi dedica le sue aspettative solo alla politica, finisce poi per non essere piu’ in grado di lasciare posizioni di potere o di responsabilita’.

La politica puo’ allora diventare la prosecuzione degli affari con altri mezzi. Weber: si vive di politica e non per la politica.

In Italia registriamo: carriere sempiterne; la sconfitta politica non implicante quasi mai la scomparsa di chi l’ha subita e ne e’ piu’ o meno responsabile (si cambia casacca); la mediocrizzazione del “prodotto” (l’uomo politico tende a riprodurre dei cloni, peggiori di lui e facilmente addomesticabili).
Da qui: a pretendere, con la grande forza di inerzia della logica proporzionalistica, delle profonde ramificazioni della vecchia struttura del potere, che l’Italia della partitocrazia diventasse d’incanto una florida democrazia anglosassone era un puro sogno.

c) Partiti e sistema mediatico (1993-2009).

Gli anni Novanta rappresentano uno spartiacque nella politica italiana. Sotto un duplice versante:

A) riforma del sistema elettorale: sistemi presidenzialistici negli enti locali; collegi elettorali maggioritari; controllo partitico delle candidature, bilanciato (in teoria) dal dettato dell’art. 67 Costituzione (Le funzioni vengono esercitate senza vincolo di mandato); abolizione delle preferenze (13); professionalizzazione di un ceto politico sempre meno acculturato e professionalizzato e sempre piu’ inteso a considerare il tempo del mandato come un’occasione irripetibile per portare “grano” sibi et suis.
Si instaura un bipartitismo che, pur semplificando il panorama politico, considera l’altro schieramento composto da nemici da demonizzare e non come avversari, pensosi anch’essi, pur sul versante dell’opposizione, a far avanzare la democrazia nel Paese. Si e’ cosi’ instaurato un clima di campagna elettorale ininterrotta, che non ha certo favorito il buon governo.

B) Sul secondo versante: nel 1994 scompaiono di colpo i partiti che avevano governato l’Italia, dal dopoguerra. Si opera una netta cesura tra il “prima” e il “dopo”; si spezzano antiche sigle e antichi simboli; vanno in soffitta patrimoni ideali, riferimenti, consuetudini. E cio’ sia sotto il profilo simbolico che organizzativo.
La spallata investe (anche e soprattutto) i due partiti maggiori.
La fine della DC (che non era piu’ in grado di progettare il futuro) si scinde in due formazioni: il Ppi, che ne eredita anima, tradizioni e strutture, e il Ccd, che, benche’ figlio minore, vuole rappresentare lo schieramento moderato e “governativo” della storia democristiana.
Il Pci – gia’ dal 1991 – si era trasformato in Pds. Trasformazione non meramente lessicale, ma di sostanza. Centralita’ del cittadino, (e non della classe); nuovi testi di riferimento: apporti diversificati, anche di tradizione liberale (Dahrendorf, Bobbio), in luogo della vulgata marxiana. Non subentra, peraltro, una nuova classe dirigente; non emerge alcuna figura (in certo qual modo) estranea alla tradizione comunista. Si perpetuano, cosi’, mali antichi: giustizialismo, fondamentalismo laicista, primazie e “diversita’” sempre meno difendibili.

Nel 1994 “scende in campo” Forza Italia, il cui leader, Silvio Berlusconi, vinte le elezioni, si impone successivamente (dal 2001) come il capo indiscusso del centrodestra.
Si radicalizza, gradualmente, il sistema bipolare. IL “centro” che, in precedenza, era stato sin troppo popolato, ora e’ quasi deserto, anche se sembrano preannunziarsi (negli ultimissimi tempi) inedite alleanze nella galassia centrista. Penso all’Udc di Pier Ferdinando Casini, all’ala cattolica del PD in fibrillazione dopo l’elezione di Pier Luigi Bersani alla segreteria, al “movimento” (in fieri) di Francesco Rutelli, che ha l’ambizione di intercettare i moderati in uscita dai due partiti maggiori. E’ azzardato sostenere che si prepara una nuova classe dirigente cattolica per il dopo Berlusconi?

Chiediamoci ora: su di un piano generale, sono cambiate sostanzialmente le cose, come sistema partitico italiano?
Sostanzialmente no, pur con tre “novita’” di rilievo:
sul piano ideologico (e’ rimasto in campo solo la cultura liberaldemocratica), sul piano della classe dirigente (accanto ai “soliti noti” (14), compaiono nuove figure, non piu’ ancorate al passato), sul piano organizzativo (si attenua, di molto, la valenza dell’iscritto-militante, scompare la vita di sezione, sorge il partito “leggero”).
L’unico partito che mantiene gli antichi “caratteri” e’ la Lega del nord: cultura identitaria, forte militanza degli aderenti, radicamento organizzativo territoriale.

Infine, lo “scadimento” dei partiti e’ dovuto anche a cause esterne.
In particolare dal ruolo assunto dalla tv: “mostro mite” che privilegiando la filosofia consumistica, l’ubiquita’ dei media, l’intrattenimento, ottunde le coscienze, limita il senso critico, enfatizza i nostri vizi nazionali.
I partiti stanno male, ma l’Italia come sta? Direi peggio. Sembrava imminente la nascita di una Seconda Repubblica che potesse agevolmente sgombrare il campo dai cascami della vecchia politica, della vecchia economia, della vecchia societa’. Ma ben presto ci si e’ dovuti arrendere all’evidenza di un amaro cambio di stagione: la primavera italiana era solo presunta. Si e’ solo rotta la crosta di un immobilismo che stava finendo gia’ per suo conto. Mentre e’ maledettamente reale l’autunno di inquietudine e di incertezza in cui ora siamo costretti.
In buona sostanza: da Tangentopoli in poi abbiamo fatto un grande investimento di risorse ideali (e giudiziarie) sulla questione morale. Ma c’e’ tornato indietro poco o niente. Gli scandali hanno innalzato il vento e la polvere, ma l’indomani l’aria e’ tornata ad essere su per giu’ quella di prima, lasciandoci respirare molte delusioni, molte scorie e anche qualche veleno.

I partiti hanno ancora una loro funzione?

Arriviamo alla domanda centrale. Abbiamo ancora bisogno dei partiti? La risposta e’ positiva: i partiti, pur in una democrazia logora e profondamente degradata come l’attuale, rappresentano pur sempre un tassello fondamentale per il recupero della capacita’ di governo della societa’ da parte delle forze politiche. Ad una condizione: che trattasi di partiti (ridotti oggi a due schieramenti) profondamente rigenerati. Il che vuol dire:

1) organizzazioni che agiscono “con metodo democratico”. All’esterno, ma (in specie) all’interno. Quindi: trasparenza, pulizia, rigore, liste degli iscritti alla luce del sole, votazioni corrette, coinvolgimento della base. E’ necessario quindi prevedere norme “strutturali” per garantire la trasparenza della vita interna dei partiti. Credo che non sia piu’ rinviabile metter mano a quella legge sui partiti il cui contenuto corrisponda a quanto dettato dall’art.49 della Costituzione. Una legge che dia rilievo penale a tutto cio’ che violi il corretto svolgersi della vita associativa. Dal tesseramento al finanziamento.

2) Partiti di eletti, e non di dirigenti di partito. Va quindi spezzata la sequenza per la quale la politica: dal popolo passa ai rappresentanti; dai rappresentanti ai partiti; dai partiti agli apparati; dagli apparati al ristretto gruppo dei dirigenti.
Ormai i parlamentari sono nominati dai vertici delle forze politiche. Sono uomini di apparato piu’ che rappresentanti del collegio in cui sono eletti. Credo che sia questa una delle ragioni per cui la figura del parlamentare, scelto dal suo capo ma retribuito dai cittadini, ha perso buona parte della sua vecchia onorabilita’ e dignita’.
Un correttivo significativo a questa perversa deriva e’ stato introdotto dal PD con il sistema delle “primarie”. Metodo, mutuato dagli Stati Uniti (dove vige, pur in contesti diversi, dall’inizio del Novecento), iniziato nel 2007 (Governatore della Puglia), proseguito con la nomina del segretario nazionale, concluso in questi giorni con la designazione del nuovo segretario nazionale.
Noi riteniamo che questo sistema debba essere generalizzato, rinvigorito, e meglio proceduralizzato. Le primarie (che hanno coinvolto, nell’ultima tornata, 3 milioni di cittadini), purche’ vere, combattute, dubitative e non rito di autoriconoscimento collettivo, possono costituire un notevole antidoto all’attuale crisi di rappresentanza dei partitit.
Una democrazia dell’opinione, in luogo della democrazia dei partiti.

3) Partiti, nei quali si discuta dei grandi temi sia nazionali, che locali. Anziche’ di posti, poltrone, lottizzazione.
Piu’ vita di sezione, piu’ dibattiti, piu’ aggancio con l’opinione pubblica, piu’ apertura a simpatizzanti, senza preventive “analisi del sangue”.

4) Partiti, infine, che sappiano scegliere, fare selezione, individuare soggetti idonei ai vari incarichi, con specifiche turnazioni. Che sappiano quindi fare emergere i piu’ capaci per il temporaneo incarico da ricoprire. Da intendere anche come “missione” e non come mero tornaconto professionale. Etica della responsabilita’, non pratica della fidelizzazione e del vassallaggio (categoria medievale).

C’e’ un problema di cultura politica. Di etica pubblica. Di comportamenti personali. Se vogliamo recuperare credibilita’ alla politica, ai partiti, allora dobbiamo avere il coraggio di cambiare. Dobbiamo aprirci, coinvolgere. Dobbiamo metterci in testa che non c’e’ altra strada per il consenso che non sia il buon governo. La risposta cioe’ ai problemi delle persone.
Cosi’ operando, anche i partiti, ritorneranno ad esercitare (pur senza visioni idealizzate del passato) quella funzione di preparazione/formazione delle classi dirigenti, indispensabili per raccordare, senza inutili contrapposizioni, societa’ civile e societa’ politica.
E’ maledettamente difficile: ma farlo dipende solo da noi.

Note.

1) M. Weber, Economia e societa’.

2) I partiti, cosi’ come regolamentati, hanno una duplice veste: privatistica (associazioni non riconosciute, norme del codice civile) e pubblica (centro di decisione politiche: artt. 18 e 49 della Costituzione).

3) La citazione e’ tratta da P. Ignazi, La lunga storia e l’incerto futuro del partito politico, il Mulino, 2008/2.

4) G. M. Cazzaniga, Belfagor, 2008/6.

5) Ad esempio, la DC, seppe coagulare intorno al nucleo degli ex popolari (Piccioni, Scelba, Gonella) e agli ex sindacalisti bianchi (Gronchi, Grandi, ecc.), non solo i cattolici che avevano partecipato alla resistenza, ma anche coloro che provenivano dalle organizzazioni collaterali della chiesa.

6) La struttura partitica, pur con variabili comuni, puo’ articolarsi da partito a partito. Piu’ gerarchizzata o piu’ flessibile, con poca o molta dialettica interna, con votazioni chiuse o aperte alle minoranze. Gli stessi iscritti, a seconda del partito di cui fanno parte, sono chiamati: compagni, amici, democratici.

7) Agli stessi, va aggiunto il PRI “Piccolo partito di massa” (Togliatti) che costituiva una sorta di “cerniera” fra laici e cattolici, fra moderati e riformisti, fra DC e PCI.

8) P. Scoppola dedica (1997) a questa diseconomia un saggio: La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico.

9) Legge 195/74 (legge Piccoli); legge 157/99; legge 156/2002.

10) Don Milani firma con i suoi alunni di Barbiana un saggio: Lettera a una professoressa (1967), argomentata contestazione del modello scolastico dominante.

11) Ad esempio, P. Ginsborg, Il tempo di cambiare, 2004.

12) Ad esempio, G. Amato, Tornare al futuro, 2002. Quello dei movimenti “e’ una strada sbagliata, che porta a conseguenze rovinose, pur con una premessa giusta”.

13) A partire dal 2006 (legge 170/2005) e’ stato ripristinato, pur con soglie di sbarramento e premi di maggioranza, un sistema proporzionale. Con calcolo diverso per l’assegnazione dei seggi alla Camera e al Senato.

14) La crisi della politica e dello Stato ha prodotto automaticamente anche una crisi di formazione delle classi dirigenti. Sono mancate le “seconde linee” all’altezza di un grande paese. La logica partitica si e’ sempre piu’ reclusa in una sorta di maniacale autismo, coltivando soltanto i riti della propria perpetuazione. Anche i cosiddetti “esterni” e/o “indipendenti” conquistavano un “posto al sole” solo se accettavano di “smussare” le ragioni della loro diversita’. Altrimenti restavano fiori all’occhiello. O, peggio, utili idioti.

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